“hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam”

(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VIII secolo)

Un angolo silenzioso di Ravenna, il breve slargo di piazza degli Ariani, ha per confine un muro antico. Unico resto dell’episcopio, è parte, con la cattedrale (oggi chiesa dello Spirito Santo) e il battistero, degli edifici per il culto ariano voluti da Teodorico nella città che per quarantasette anni (493-540) fu capitale del regno italico retto dagli Ostrogoti. Secondo lo storico Andrea Agnello, questa residenza dei vescovi sarebbe divenuta in seguito la casa di Droctfulft, dux Langobardorum. Pare che tanto la memoria degli scrittori quanto i desideri del rinnovamento si siano a lungo esercitati su questo muro, il cui bruno laterizio,levigato dal tempo, è sormontato da tre croci e ornato di formelle bizantine (X-XII secolo). Proprio dall’incontro fra le asprezze di stampo barbaro e la ricca influenza estetica giunta da Costantinopoli, si è creata a Ravenna una singolare qualità di conservazione evocativa. La città, più volte capitale di potentati diversi (impero, regni italici, Esarcato), ha incluso nelle sue fibre i segni di un intreccio creativo, formando come gli accordi di nostalgie destinate a risuonare attraverso le epoche. Scenario lirico e narrativo durante il secolo XIV, dannunziana città del silenzio, appassionato approdo per lord Byron, brumoso profilo cantato da Oscar Wilde, fondale allucinatorio scoperto dalla filmografia contemporanea, Ravenna è stata resa oggetto di riflessioni da un famoso critico e da un celebrato scrittore. Benedetto Croce e Jorge Luis Borges si sono occupati di Droctulft, cogliendo nel mito del duca longobardo i segni di una poesia “che alza il capo dove meno si aspetterebbe”. Questi entra, anzi, secondo Croce, nella “schiera delle figure poetiche” destinate a restare per sempre tra i ricordi personali. “Terribilis visu facies, sed mente benignus,/ longaque robusto pectore barba fuit”: la descrizione del guerriero arimanno evoca i segni del terrore e della bontà, della forza bruta ingentilitasi al nascere del pensiero. Soprattutto in questo sviluppo risiede il segreto della forza poetica di Droctfulft. “Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes”: il barbaro abbandona i suoi e difende la città che, insieme coi Longobardi, ha attaccato. E non appare un traditore, ma un uomo fedele a se stesso, quando riconosce in Ravenna l’autentica patria: “hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam”. Ed è città dello spirito, attraversata da una bellezza che incarna valori universali. “Vede il giorno e i cipressi e il marmo. Vede un insieme che è molteplice senza disordine; vede una città, un organismo, fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti” (Borges). Qui Droctulft, avvertendo i segni di “un’intelligenza immortale”, può sentirsi cittadino di Ravenna. La capitale, contrapposta al mondo primitivo, è attraversata da una natura che si intona ai segni della civilizzazione. Ravenna, circondata da acque stagnanti e insalubri, è anche agglomerato di terra e di onde, costruita su isolotti alluvionali sorti sulla distesa adriatica; si erge in un ambiente, che, entro il perimetro delle mura, è stato reso adatto alla vita. Appare essa stessa un giardino, esempio di come gli elementi ostili possano armonizzarsi al pensiero dell’uomo. Droctulft è colto dalla rivelazione dello spirito che anima una “Città”: “sa che in essa egli sarà un cane, un bambino, e che non potrà mai capirla, ma sa anche ch’essa vale più dei suoi dèi e della fede giurata e di tutte le paludi di Germania” (Borges). La scoperta di Droctulft ha il valore di una riscoperta, della nostalgia per un mondo solo vagamente percepito nell’età infantile, poi reso attuale dalle evocazioni mature. Il giardino ravennate è metafora dell’ordine interiore ricomposto entro la mente del barbaro, contiene la spinta a riconoscersi nelle forme di una nuova identità. Appare questa un’operazione creativa, che, partendo dal possibile ricordo di antiche esperienze, realizza un appagamento attraverso la costituzione di operazioni mentali ed emotive mature (cfr. S. Freud “Il poeta e la fantasia”). Anche la morte eroica di Droctulft è descritta come evento carico di valori umani e poetici, fino a collocare il sepolcro del guerriero sulla soglia della basilica di San Vitale, il soldato (martire sotto Nerone), che la tradizione indica come primo evangelizzatore dei ravennati.

La nostalgia è apparsa la spinta più forte per il ripristino, in anni recenti, della cripta e del giardino pensile Rasponi, entro il palazzo della Provincia.Travagliata è la storia dell’edificio, come segnata da un inquieto destino. L’aspetto odierno fu disegnato (1926-28) da Ulisse Arata, che predilesse uno stile eclettico ispirato alle architetture ravennati. In precedenza adattato ad albergo, poi a sede delle cooperative “rosse”,il palazzo venne incendiato il 28 luglio 1922, dopol’assedio posto a Ravenna dalle squadre di Italo Balbo e Dino Grandi, durante una sorta di prova generale della marcia su Roma. Nella parte più intima è la cripta, che originariamente venne destinata a ospitare la sepoltura dei Rasponi. Realizzata nel ‘700 e mai impiegata per scopi funerari, reca preziosi mosaici del VI secolo, qui trasferiti dalla basilica di San Severo in Classe. La cripta, aperta alla base di una torretta neogotica, è preceduta dall’iscrizione Sic vita pendet ab alto. Il motto si fa evocatore della memoria per i defunti; il loro spazio è idealmente collocato alle fondamenta della vita chepulsa ai piani alti del palazzo e consente, nel ricordo, una forma di sopravvivenza per chi non c’è più. In alto è anche il grazioso giardino pensile, realizzato nel 1839, dal quale lo sguardo si apre su piazza San Francesco. Il giardino è luogo segreto, spazio per il pensiero e per i ricordi nostalgici; rappresenta un punto di contatto tra l’esterno e l’interno, tra il presente e il passato, tra lememorie familiari e l’apertura verso il centro della città. Nota è un’altra dimora dei Rasponi, provvista di un fascino grandioso e accompagnata da una vicenda singolare, che la vede quasi nascosta, oggi come dimenticata, entro la campagna di Russi. Eretta sulle rive del Lamone, così da consentire l’accesso fluviale a chi vi si recasse nella stagione della villeggiatura, prese ilnome di palazzo San Giacomo dalla vicina chiesa,trasformata in oratorio. Concepita nello spirito delle “delizie” di campagna, la dimora ebbe come giardino la vasta dotazione agraria circostante e gli alti argini fluviali. Palazzo San Giacomo fu innalzato, a partire dal 1664, sulle fondamenta del castello alto-medioevale di Raffanara; rappresentò, nell’intento del proprietario, il conte Guido Carlo Rasponi, anche un atto di onore nei confronti di Cesare, il proprio fratello, creato, quello stesso anno, da papa Alessandro VII cardinale in pectore. L’edificio ampio e imponente (detto dalle 365 finestre) si dota di tre piani (di cui quello inferiore è a scarpata) e di due torrioni laterali. La decorazione degli interni venne realizzata a più riprese e coinvolse le due generazioni successive dei Rasponi. Direi che il fasto della dimora di campagna, superiore per bellezza e grandiosità a quella cittadina, consente un contatto diretto con la natura alla cui potenza solitaria e silenziosa si intona. Di fatto, il prestigio della casata ravennate rinnovava, nella seconda metà del ‘600, i fasti delle corti seicentesche e colmava la nostalgia per le atmosfere della Roma barocca in cui Guido Carlo e Cesare erano cresciuti. Qui, orfani di padre, erano staticondotti dalla loro madre e posti sotto la protezione dei Barberini. Cesare Rasponi (1615-1675), nonostante gli appoggi della monarchia francese e il favore di una fazione curiale, non sarebbe salito al soglio pontificio. La sua figura resterà comunque nell’immaginario popolare ravennate,

“Am darebbal, Sgnuren, l’amunizion/ se invezi d’avè nom Zezar Balusa/ am ciamess, par mod d’dì, Zezar Raspon?” (Olindo Guerrini, Davanti a e’ pretor). Il popolo ravennate, abituato a osservare con distacco ironico e giudizio sarcastico le abitudini della nobiltà, non fa distinzione tra l’otium ricreativo dei signori e l’ozio forzato e colpevole, l’inattività imposta al povero dall’assenza di lavoro. Col senso veemente delle rivendicazioni sociali, il verso guerriniano dà voce a una nostalgia: quella del popolo propenso al recupero dicondizioni felici e democratiche per la vita, con una parità tra gli individui sancita dal solo diritto naturale e non ostacolata da fattori di censo o di lignaggio. D’altra parte, l’uguaglianza del nome di ispirazione classica (uso invalso in Romagna come auspicio di antiche virtù) renderebbe identiche le prerogative degli individui di fronte alla legge e alla società. Che importa se l’imputato ha per cognome Balusa? Il termine indica la castagna, ma fa anche riferimento ai caratteri di una personalità un po’ bislacca e disfattista. Abituato a riposarsi all’ombra dei monumenti antichi, ad ammirare da lontano gli splendori di età bizantina, a sbirciare attraverso i portoni la profondità dei giardini nobiliari, il popolano (quasi abbia attinto spirito indomito alla linfa dei progenitori)tratta con familiarità i personaggi della storia. E la sua sosta oziosa nei pubblici giardini non è vizio sanzionabile in pretura, ma può risultare il tempo creativo e fecondo per un pensiero che ha fatto dell’arguzia implacabile e della franca parola uno strumento utile al vivere civile.

Bibliografia

Jorge Luis Borges (1952), Storia del guerriero e della prigioniera, ne “L’Aleph”, 46-51, Feltrinelli, Milano, 2014.

Benedetto Croce (1936), La poesia, Laterza, Bari, 1942.

Sigmund Freud (1907), Il poeta e la fantasia, in “Opere di Sigmund Freud”, vol. 5, 371-373, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.

Olindo Guerrini (1920), Sonetti romagnoli, Zanichelli, Bologna, 1949.

Pierluigi Moressa, I colori della terra – Guida storico-artistica di Lugo, Faenza, Imola e della bassa Romagna, Foschi, Forlì, 2014.

Appendice 1

Epitaffio di Droctfult

Clauditur hoc tumulo, tantum sed corpore, Drocton;
nam meritis toto vivit in orbe suis
cum Bardis fuit ipse quidem, nam gente Suavus,
omnibus et populous inde suavis erat
terribilis visu facies, sed mente benignus,
longaque robusto pectore barba fluit.
Hic et amans semper Romana et publica signa,
vastator genti adfuit ipse suae.
Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes,
hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam.
Huius prima fuit Brexilli gloria capti;
quo residens cunctis hostibus horror erat
quo Romana potens valuit post signa iubare,
vexillum primum Christus habere dedit.
Inde etiam, retinet dum Classem fraude Faroaldus,
vindicet ut classem, classibus arma parat.
Puppibus exiguis decertans amne Badrino,
Bardorum innumeras vicit et ipse manus.
Rursus et in terris Avarem superavit eos,
conquirens dominis maxima lucra suis.
Martyris auxilio Vitalis fultus, ad istos
pervenit victor saepe triumphos ovans;
cuius et in templis petit sua membra iacere,
haec loca post mortem iustis habere iubat.
Ipse sacerdotem moriens petit ista Iohannem,
his rediit terris cuius amore pio.

Paolo Diacono, Historia Langobardorum

[In questo tumulo è chiuso, ma solo con il corpo, Droctulfo, perché, grazie ai suoi meriti, egli vive in tutta la città. Egli fu con i Bardi, ma era svevo di stirpe: e perciò era dolce per tutte le genti. Il volto era tremendo all’aspetto, ma l’animo buono, la sua barba fu lunga sul petto robusto. Amò sempre le insegne del popolo romano, sterminò le sue stesse genti. Per amor nostro, disprezzò gli amati genitori, reputando che Ravenna fosse la sua patria. Prima gloria fu occupare Brescello. E restando in quel luogo, fu terribile per i nemici. Poi sostenne con forza le sorti delle insegne romane. Cristo gli diede da tenere il primo vessillo. E mentre Faroaldo con frode trattiene ancora Classe, egli prepara la flotta e le armi per liberarla. Battendosi con poche barche sul fiume Badrino, ne vinse moltissime dei Bardi e poi superò l’Avaro nelle terre orientali, conquistando il massimo onore per i suoi sovrani. Sostenuto dall’ausilio del martire Vitale giunse da loro vincitore, spesso con l’ovazione del trionfo. Per le membra egli chiese riposo nel tempio del martire: qui è giusto che, morto, egli resti. Egli stesso lo chiese morendo al sacerdote Giovanni, per il cui pio amore venne a queste terre.]

 

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